La storia di Cascina Fontana è anche un po’ quella di un vino mito, il Barolo.
È stata una serata memorabile, quella in cui abbiamo ospitato Mario e Luisa Fontana al MAVV di Portici con la Banca del Vino. Nelle parole accorate e accurate di Mario abbiamo ripercorso la storia di un vino mito – il Barolo – e di una lunga tradizione familiare, legata in particolare alla figura di nonno Saverio: fu lui a comprare la cascina quando Mario aveva solo 17 anni e, abbandonata la scuola, si era dedicato a ciò che più amava (e ama) fare, cioè coltivare la vigna.
Gli insegnamenti del nonno hanno sempre accompagnato Mario, anche quando poi decise di percorrere una strada diversa, lontano dalla famiglia. Il ricordo della sua esortazione – «del nebbiolo ti devi fidare» – è per certi versi complementare a quella capacità di “ascolto” (e di interpretazione) della vigna e del vino che fa di Mario uno degli interpreti più talentuosi della tradizione di Langa.
Mi ha colpito, poi, la verità di un’idea di lavoro tra i filari quanto più distante è possibile da certa retorica del meno si produce, meglio è: niente forzature in nome della concentrazione, la pianta deve produrre quel che può e che sopporta, senza eccessivi diradamenti (fatto – questo – che oltretutto gli consente di allungare sensibilmente i tempi di maturazione delle uve). Questione di equilibrio, insomma.
Ci sarebbero altre cose da dire, mi fermo qui per fare spazio ad alcuni pensieri del dopo assaggio dei 6 vini proposti.
I vini di Cascina Fontana
Il Langhe Nebbiolo 2019 è un campioncino della categoria e gioca a fare il Barolo: alla cieca non sarei affatto sicuro di prenderci. Le uve arrivano dai vigneti di Castiglione Falletto (non nelle MGA Villero e Mariondino) e dalla proprietà di Sinio, paese appena fuori dalla zona di produzione del Barolo, dopo Serralunga d’Alba. C’è tanta materia, un tannino dolce e una dinamica di bocca rigorosa, pur nel quadro di una bella scorrevolezza.
Il trittico dei Barolo non poteva essere più diverso, fatto salvo che per l’idea produttiva alla base: sono vini di assemblaggio dalle uve delle tre vigne di proprietà (ai due cru di Castiglione Falletto si aggiunge la vigna Gallinotto nel cru Giachini a La Morra), in percentuali variabili a seconda delle annate. Spicca per rigore e austerità il Barolo 2016, dal timbro minerale, con una dinamica gustativa ancora in divenire ma già gratificante. Diverso il discorso per i Barolo 2017 e 2018, con preferenza personale per quest’ultimo: il primo si muove in larghezza, pur potendo beneficiare di una sufficiente dose di freschezza e balsamicità (quanto ha inciso il carattere dritto del nebbiolo di Castiglione?), mentre il 2018 procede più che altro in verticale, con un plus di finezza rispetto al Barolo 2017. La cosa curiosa, semmai, è che entrambi i vini parrebbero essere pronti, in modo ovviamente diverso: i più sono convinti di non poterne ricavare previsioni a lunga gittata, io che coltivo il dubbio lo farei con ancor più decisione nel caso del 2018.
Il Barolo Castiglione Falletto 2013 è quello che si dice un vino di grande austerità: decisamente più indietro degli altri e solo agli inizi del suo percorso, sembra voler metterti in guardia, se ne sta sulle sue, poi si apre, si chiude e si riapre ancora, fa tutto fuorché accarezzarti al palato, ma che ci posso fare: a me piacciono gli schiaffoni.
Finale sontuoso con il Barolo 1971, per il quale sono utili alcune precisazioni in premessa. Lungi dal voler celebrare a prescindere il vino più “vecchio” della serata soltanto in quanto tale, il 1971 è un crocevia di sentimenti: l’annata preferita di nonno Saverio, ma anche l’anno di nascita di Luisa, moglie di Mario. Sarà per questo che Mario si è chiamato subito fuori, perché se “ogni scarrafone è bell ‘a mamma soia“, il Barolo 1971 è uno scarrafone bellissimo. Incredibile per integrità e luce, è un rosso caleidoscopico: parte col tabacco dolce, il frutto è sempre vivido, arrivano poi la balsamicità dell’alloro e una finissima nota ematica. Cinquant’anni e passa di vino, che roba bellissima!
Ph Adele Granieri