Rischia forse di apparire anacronistico coi suoi 15 gradi e mezzo di alcool, ma il Sannio Aglianico Riserva Colle dell’Aia 2017 di Aia dei Colombi si beve eccome!
Tempi duri per i grandi rossi. Le vendite stagnano e il mercato chiede vini “dal peso leggero” e di pronta beva; l’alcool in etichetta è uno spauracchio e si fa sempre più fatica a superare la “soglia psicologica” dei tredici gradi.
Non fa eccezione l’Aglianico. E non parlo soltanto del Taurasi: soffrono anche denominazioni (almeno sulla carta) “minori”, se non per un fatto di numeri quantomeno per appeal commerciale.
Aia dei Colombi
Guardia Sanframondi, il paese dei Riti Settennali dell’Assunta (che, per inciso, non ho visto nemmeno la scorsa estate), è notoriamente un luogo di straordinaria vocazione per aglianico e falanghina. Aia dei Colombi, l’azienda dei fratelli Gaetano e Marcello Pascale, ci ha abituato in questi anni a interpretazioni liquide delle uve tipiche del Sannio beneventano di grande personalità e fedeltà al varietale.
«Vinificazioni lineari e senza effetti speciali per tirare fuori il carattere dell’uva e dei luoghi», abbiamo appunto scritto in Slow Wine 2025.
I bianchi – sia le due versioni di Falanghina del Sannio (il cru Vignasuprema è ormai un riferimento per la tipologia), sia il Fiano – sono rodati e peraltro proposti a prezzi davvero vantaggiosi. Sul fronte rossista, tralasciando la nuova referenza da uve camaiola (etichetta bianca e rosa), i due Aglianico sono stati oggetto di un graduale ripensamento stilistico. Sia la versione più semplice (etichetta bianca e rossa), sia quella più ambiziosa del Colle dell’Aia (etichetta bianca e nera), infatti, affinano oggi in botti grandi di rovere.
Il Colle dell’Aia di Aia dei Colombi
Si tratta a tutti gli effetti di un cru: dalla vigna che si trova in località Colle dell’Aia arrivano anche i grappoli di falanghina per il Vignasuprema. La vista privilegiata dal terrazzo del centro aziendale rende merito alla bellezza del panorama disegnato dai filari tutt’intorno e nella valle telesina.
In molti desisterebbero già solo leggendo i 15,5 gradi in etichetta. Niente di più sbagliato, perché il discorso è sempre lo stesso: nel vino – come nella vita, d’altronde – è tutta una questione di equilibrio. C’è l’alcool, e si sente. C’è anche una sensazione di piena maturità (o forse appena oltre) del frutto, che è vivo e nitido. Ci sono un tannino ben levigato e un sorso di grande incisività. Manca forse un po’ di finezza, e il passo sembra più quello del mediano che non del fantasista. Ma a ciascuno il suo, non vi pare?
Poco contemporaneo per le insegne, insomma, ma di buona dinamica e di sicura affidabilità a tavola. Che non guasta affatto.