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Paternoster, una storia lunga (quasi) 100 anni

Il monte Vulture con il “cappello” è quella che si dice una sentenza: inutile star lì a fare gli scongiuri, meglio aprire in fretta l’ombrello. Ne ho (purtroppo) avuto la riprova lunedì scorso, quando sono tornato a Barile per il #Paternosterday voluto dalle famiglie Tommasi e Paternoster. La pioggia ha un po’ scombussolato i piani, è vero, ma la verticale delle due etichette di Aglianico del Vulture più importanti dell’azienda fondata da Anselmo Paternoster nel 1925 ha regalato forti emozioni, com’era prevedibile.

Verticale di Don Anselmo, Paternoster

Rotondo

L’acquisizione di Villa Rotondo, in quella contrada Solagna del Titolo che è crocevia di venti, risale al 1975 e si deve a Pino Paternoster, ma fu grazie all’intuizione di Vito Paternoster che a partire dal 1996 le uve del podere cominciarono ad essere vinificate separatamente e valorizzate con un cru*. I millesimi 2015 e 2005 rappresentano due diverse idee di vino, non da ultimo perché per il secondo la fermentazione era avvenuta in vasche di cemento, invece che in acciaio; il 2011, figlio di un’annata in cui le viti hanno sofferto un forte stress idrico durante l’estate, m’è parso introverso, a tratti scorbutico e anche un po’ polveroso a dirla tutta, quantomeno sugli inizi. Decisamente più interessante, a mio avviso, il 1998: sorso sanguigno e salato, tannino saporito e balsamico. Un bel bere, insomma.

Don Anselmo

Sono più a mio agio, in genere, con il Don Anselmo**, l’etichetta dedicata al fondatore dell’azienda, e capisco perciò l’emozione di Fabio Mecca (che è l’enologo, ma soprattutto persona di famiglia) nel parlarne. Alle sue spalle, tutte – dico tutte – le annate sin qui prodotte, dal 1985 ad oggi, momentaneamente strappate alla custodia della zia ultranovantenne. Il millesimo 2015 è giovane almeno quanto il Don Anselmo 2016 che ho assaggiato in anteprima qualche tempo fa (“grande vino” per noi di Slow Wine): qualche timidezza al naso, ma al palato scorre via con una certa facilità. La mia personale preferenza è andata però al 2013 e, soprattutto, al 1997: entrambi paradigmatici per le sfumature di arancia sanguinella, cenere, mirto, con un plus in termini di vitalità e slancio per la bottiglia più datata. Assai più complicato, almeno per il sottoscritto, decifrare un 2007 che direi debba ancora trovare un suo equilibrio, complice l’annata bizzarra, in cui le forti calure dell’estate misero a dura prova le piante, prima di un autunno fresco e asciutto che riportò la situazione alla normalità. Ne è venuto fuori un vino chiaroscurale, più introverso, chissà forse proprio per questo ancor più intrigante (funghi, sottobosco, cenere, cioccolato), per il quale non esiterei a parlare di spiccata vocazione gastronomica.

* fermentazione malolattica in barrique nuove con frequenti batonnage, affinamento tra i 14 e i 16 mesi sempre in legno piccolo.

** affinamento di 20 mesi in legno (50% botte grande, 50% barrique di 2° passaggio), 6 mesi in acciaio dopo l’assemblaggio e altri 6 mesi di bottiglia prima della commercializzazione.

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