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Impeto, l’Aglianico secondo Torre del Pagus

Impeto Torre del Pagus

Vent’anni di Impeto a Torre del Pagus: che emozione poter raccontare tutte le annate di questo grande Aglianico!

Vent’anni di Impeto: e quando mi ricapita!? L’ho pensato subito dopo aver visto su Instagram la foto che ritraeva Raimondo Marcarelli intento a degustare con l’enologo Ernesto Buono. Qualche messaggio, ormai ci si conosce da un po’, prima di fiondarmi a Paupisi l’indomani pomeriggio.

Dopotutto Giusy Rapuano e suo marito Raimondo – sono loro oggi a occuparsi della cantina fondata da Giovanni Rapuano – mi aspettavano già per ritirare la mia bottiglia del Metodo Classico Luì (poi vi dirò su Falanghina Republic): come si dice, due piccioni con una fava! 😀

L’Impeto

L’Impeto è stata un’idea di Luigi, figlio primogenito di Giovanni, purtroppo prematuramente scomparso, che aveva individuato la vigna giusta, quella in località Santo Stefano di Vitulano – poco meno di un ettaro –, «nascosta nel bosco e raggiungibile solo a piedi» (la raccontavo così su Slow Wine 2020). Capirete anche per questo la particolare affezione della famiglia Rapuano nei confronti di questa etichetta.

Si lavora con un’attenta selezione in campo e appassimento delle uve: per capirci, se i grappoli destinati all’Aglianico del Taburno Riserva “Maiardi” sono generalmente raccolti tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre, per quelli dell’Impeto bisogna aspettare qualche giorno in più. Il segreto della lavorazione sta nelle lunghissime macerazioni in tini di castagno, prima del passaggio in barrique di rovere per almeno 16 mesi e del lungo affinamento in vetro (tra i 3 e i 5 anni).

La verticale

Giusto qualche sensazione annotata qua e là durante gli assaggi fatti con Raimondo: un’altra bella occasione di confronto e di crescita.

2013: non ancora in commercio, ma in bottiglia da un paio d’anni. Balsamico, fiori (viola) e frutta matura (amarena), tannino potente ma ben diluito da viva acidità e sapidità. Ci sarà da divertirsi, credo.

2010: più chiuso, scuro e terroso. Non mancano, sullo sfondo, le suggestioni balsamiche, il finale è poderoso, forse appena sfocato. A dirla tutta, sembra anche più indietro del millesimo precedente.

2009: maggiore complessità al naso, dove si fanno più insistenti le note speziate e di frutta in confettura. Tannino un po’ ruvido, sorso saporito e gastronomico, bell’allungo.

2008: «è stato sulle bucce fino a marzo», mi dice Raimondo, riportando il ricordo dell’annata del suocero Giovanni. La surmaturazione delle uve è più percepibile e contribuisce a regalare una beva avvolgente; a dispetto di un calice che non è esente da abbondante deposito, «è stato tra le annate più apprezzate dai clienti» conclude Raimondo.

2007: un altro millesimo in cui s’è giocato con la surmaturazione. Che vino! Agrumato, sanguigno, sapido.

2006: assomiglia al 2008, meno al 2007, con un boquet di profumi di un certo impatto, quasi più giovanile. Si perde un po’ in bocca, ma la beva resta comunque piuttosto efficace.

2005: outsider. Tanto succo, una bellissima balsamicità di alloro, note rugginose e un calice che gioca molto sulle trasparenze. A chiudere gli occhi non sarebbe difficile puntare il dito verso altre zone d’Italia.

2004: il naso è sicuramente più polveroso, con sentori di canfora, profumi di funghi e sottobosco, ma la bocca è tonica e ha buona progressione gustativa.

2003: il mio preferito. Straordinariamente integro e vivo sin dal colore, che preannuncia un sorso intenso e verace, complesso, tutt’altro che al capolinea.

2002: il meno convincente, a dire il vero, ma toccherebbe sentire qualche altra bottiglia ché quella che ho provato io m’è parsa semplicemente brettata.

2001: è la prima annata commercializzata, dopo un paio di prove nei millesimi precedenti. Un vino buonissimo, ma qualcosa meno del 2003 secondo me, che smuove affetti e ricordi. Luigi decise per un forte diradamento dei grappoli nonostante le rimostranze dei nonni, i genitori di Giovanni. Però aveva ragione lui.

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