D’accordo, la mia è sostanzialmente un’Irpinia edition di Campania Stories, ma non pensate che il discorso sia poi così diverso per il resto della regione: i bianchi vanno a mille – ma lo sapevamo già un po’ tutti, anche quelli che fanno rumore e basta (semi-cit.) –, i rossi fanno più fatica, pur non mancando le eccezioni (che è tutto fuorché la solita banalità detta tanto per).
2018 e 2019 per i bianchi, in generale, sono annate praticamente agli antipodi. Si parla sempre (e giustamente) del Fiano, però la 2019, se posso dire, a me sembra proprio un’annata da greco: il gap di acidità rispetto al millesimo precedente (che poi, dico, avete presente di che valori parliamo?!) è ampiamente ripagato dal sapore e (forse) anche da una maggiore facilità di approccio. Buone sensazioni, anche fuori dall’Irpinia, per i vini di falanghina, che pure qualcuno ha forse troppo sbrigativamente liquidato come “poco brillanti”, tanto più che il campione presentato era finanche modesto (numericamente parlando) e che quindi un’idea di massima -come pure per i vini di greco, peraltro- non può prescindere da altri, precedenti assaggi.
Difficile, se non impossibile, invece, star lì ad arrovellarsi per trovare una chiave di lettura unitaria sul (anzi, sui) Taurasi: l’eccessiva frammentazione delle annate presentate in degustazione è già un bel problema, sia in tema di riconoscibilità sia di comunicazione, e qualcosa si dovrà certo fare in futuro. Per non parlare di talune scelte produttive, a dir poco anacronistiche, a svantaggio di una complessiva piacevolezza di beva.
Ma vabbè. Io vi dico i vini che sì e quelli che no, poi voi fate un po’ come vi pare.
Bambinuto. Capisco che il Picoli vada per la maggiore, e va bene, ma io dico che il Greco di Tufo 2018 mi è parso uno dei più buoni mai prodotti da Marilena Aufiero in quel di Santa Paolina.
Cantine dell’Angelo. C’è l’imbarazzo della scelta tra Miniere e Torrefavale, ma io stappo convinto il primo, davvero saporito e luminoso nella versione targata 2018.
Colli di Lapio. Un Fiano di Avellino 2019 classico, puntuale, senza sbavature. Più che da top hits, un evergreen. Tocca tornare a Lapio prossimamente per sentire anche la selezione Clelia 2018.
Contrade di Taurasi. Bene il Grecomusc’ 2017 della famiglia Lonardo, meglio il Taurasi Coste che il Vigne d’Alto (almeno in questa fase).
Di Marzo. Da assaggiare il Greco di Tufo della linea GDO, quello che si dice great value for money; nella stessa direzione il 2019 della linea premium: solido, tipico, slanciato. Tra i tre cru scelgo il Vigna Laure 2018, ma ricordo che, da vasca, il Vigna Ortale mi disse qualcosina in più. Parliamo pur sempre di Tufo: frazione San Paolo per il primo, Santa Lucia per il secondo.
Di Meo. A quanto pare il Greco di Tufo 2019 è piaciuto molto, ma io sono più per il Fiano di Avellino pari annata: solido, classico, preciso. In una parola, convincente.
Di Prisco. Pasqualino non vende bianchi ma solide realtà (semi-cit), però i due base 2018 me li ricordavo più performanti. A sentire qua e là si fa più forte il dubbio di qualche bottiglia un po’ così così, anche perché altri assaggi, persino più recenti, mi hanno detto ben altro.
Benito Ferrara. Greco di Tufo Vigna Cicogna 2019 mooolto in palla, decisamente meglio dell’assaggio fatto da vasca poco prima del lockdown, quando gli avevo sinceramente preferito il Terra d’uva pari annata.
Feudi di San Gregorio. Cutizzi, più che Pietracalda, anche se la vera sorpresa per il sottoscritto è il Taurasi Riserva Piano di Montevergine 2014. Oh, non mi piace mai. Ecco, appunto: manca forse un po’ di definizione, ma si difende benone direi. Anche tra i vini di Feudi Studi ce ne sono di cosucce interessanti: il Greco di Tufo Nassano e il Fiano di Avellino Morandi, per esempio.
I Favati. Un po’ sottotono in batteria, comunque meglio il Fiano di Avellino 2019. Decisamente più positivi gli assaggi fatti poche ore prima in cantina.
Il Cancelliere. Profilo tecciano il Nero Nè 2015 è un Taurasi a lunga gittata, ma non è mica peccato stapparlo adesso. L’importante è che abbiate di che mangiarci sopra, perché qua ragazzi il discorso è serio.
Passo delle Tortore. Debutto tutto sommato positivo, con un trittico di bianchi ben congegnato, ma a mio avviso penalizzati da una vena dolcina.
Perillo. Il Taurasi 2010 fa un po’ da spartiacque, se ho ben capito, tra quel che di buono, tanto buono, abbiamo visto sin qui, e quello che vedremo poi. Questione (pure) di legno grande, che da questo millesimo in poi è stato sempre più utilizzato. Un rosso gustoso, tipico e tipicamente made in Castelfranci.
Pietracupa. Naso e bocca troppo mature per il Fiano 2018, che mi ha lasciato un po’ interdetto; stesso incipit anche per il Greco pari annata, che però almeno si riscattava in bocca. Boh, me li ricordavo di gran lunga migliori.
Rocca del Principe. Dico Tognano 2017, ma è tipo una vittoria strappata al fotofinish, perché il Fiano di Avelino 2018 se la gioca alla grandissima.
Tecce. Purosangue, più che Poliphemo. Ma la verità è che il primo è sempre più leggibile dell’altro, almeno nell’immediato.
Tenuta Cavalier Pepe. Opera mia non mi convince, al contrario il Taurasi Riserva Loggia del Cavaliere 2014 è, secondo me, uno dei migliori nell’annata.
Tenuta del Meriggio. Almeno sui base, devo dire, si casca bene un po’ dovunque.
Tenuta Scuotto. Oi nì 2017 è un bianco complesso, stilisticamente ineccepibile: se avesse qualcosa in più in fatto di leggerezza sarebbe ancora meglio.
Traerte. Il Fiano di Avellino 2018 era indecifrabile, molto bene invece la Coda di Volpe 2018: classica, sapida, lunga.
Villa Diamante. Niente Clos d’Haut, c’era solo il Vigna della Congregazione, fin troppo precisino (nel bene e nel male). Nel complesso mi ha preso molto meno di un paio di mesi fa.
Villa Raiano. Archiviata qualche difficoltà per il Greco di Tufo Ponte dei Santi 2018, dal trittico dei cru di Fiano di Avellino pesco il Bosco Satrano 2018, sempre più convincente, cui resta solo da smussare qualche esuberanza.