Riflettevo proprio l’altro giorno sullo spropositato ingrossamento della colonna “uscite” del mio bilancio; tendenza che, per la verità, si è manifestata già da qualche tempo, più o meno da quando ho messo piede al primo corso da sommelier. Detto tra noi: non fatelo! 😉
Inutile aggiungere che, onde evitare malori e tralasciando tutta la serie di imprecazioni che ho sputato fuori a conti fatti, ho preferito spostare la mia attenzione sul tipo di bottiglie che sono solito acquistare. Datosi che il mio credo bianchista è fatto ormai noto ai quattro alcolisti anonimi (cit) 🙂 che si imbattono in questo pseudo-blog, non risulterà difficile dedurre che compro parecchi vini bianchi, preferibilmente con qualche annetto sulle spalle.
La cosa – credetemi – è fonte di grosse soddisfazioni ma anche di qualche rischio: la cattiva conservazione delle bottiglie, per dire. Ergo, ci vuole pure una buona dose di fortuna. Considerato, poi, che le enoteche dove è possibile trovarli – questi bianchi, dico – non sono tantissime, mi son dovuto attrezzare e ho individuato 2/3 posticini di quelli giusti per evitare sorprese indesiderate. Tra questi, l’Enoteca Ronchi (Milano, via san Vincenzo nr. 12), che è poi il posto dove ho trovato questo soave classico, un mesetto fa.
Perché questa boccia? L’ho scelta per tutta una serie di motivi che non sto qui a spiegarvi. Anzi no, ve li dico. Primo: mi piaceva il nome. Secondo: amo il Soave. Terzo: era un bianco di quelli vecchiotti, appunto. Quarto: conoscevo l’azienda. Avevo assaggiato di recente il cru Monte Grande 2007: mi aveva convinto – ricordo – salvo qualche piccola perplessità iniziale, dovuta più che altro alla temperatura di servizio, di qualche grado superiore al necessario.
A differenza di quello, il Colle Sant’Antonio è un soave da uve garganega in purezza. Millesimo 2003, annata che già più volte – e mica solo su queste paginette – ha smentito ogni luogo comune, rovesciando il “facile” e troppo generalizzato pronostico di vini troppo caldi, cotti, un po’ seduti per mancanza di adeguata spinta acida e bla-bla-bla.
Nel mio caso, è andata proprio così. Non so dirvi se anche lì a Monteforte d’Alpone l’annata sia stata torrida ma la sensazione è che il tutto sia stato amplificato dalla tecnica di vinificazione che ho poi letto sul sito internet della bella azienda di Graziano Prà: surmaturazione delle uve (taglio del tralcio), fermentazione e affinamento in barriques nuove per un anno.
Un vino elegante, anche profondo; ma esagerato, nel senso di troppo grasso e troppo ricco. Risultato? Bottiglia rimasta lì, semi-piena, sul tavolo.
Dovrò riassaggiarlo. Annata diversa, però.