Fare di tutta l’erba un fascio è pericolo sempre dietro l’angolo, specie quando ci si imbatte in bottiglie di annate cosiddette sfortunate come è stata, un po’ in tutto lo Stivale, la 2003. Annata calda – troppo, forse – che spesso e volentieri ha partorito vini carichi e precocemente maturi, con acidità e freschezza anche di molto sotto l’asticella della normalità. I rossi, in particolare, si sono visti gambizzare in termini di potenzialità evolutive e aspirazioni d’invecchiamento. Apro e chiudo parentesi: menomale che la moda dei vini iperconcentrati e marmellatosi ha fatto capolino (o quasi) già da un po’!, chissà quali sensazioni ci avrebbero regalato alcuni vinoni figli di un millesimo così…
Se da un lato il Sassicaia che ho bevuto io nulla aveva del vino “seduto”, dall’altro c’era il rischio, in questo caso maggiore, che il costo spropositato della bottiglia diventasse il pretesto per abbandonarsi a critiche superficiali e ingenerose; soprattutto nel particolare momento che stiamo vivendo, in cui certi vitigni – vedi
cabernet franc e
cabernet sauvignon (giusto per citare quelli che poi vanno a comporre l’uvaggio del taglio
tosco-bordolese di Tenuta San Guido) – sono demonizzati, talvolta a prescindere. E sì che sono anch’io tra quelli che non credono alla storiella del vitigno internazionale migliorativo (
vi dice niente Cirò!?); ma è innegabile che certi vini, anche italiani, prodotti con vitigni
alloctoni sono di assoluto livello qualitativo (
come non ricordare, per esempio, il cabernet sauvignon di Eugenio Rosi? Ne ho parlato qui).
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Sassicaia 2003, Tenuta San Guido |
Pur non essendo uno di quei vini per cui stravedo, forse anche perché soltanto una volta, prima di questa, avevo avuto modo di tirargli il collo (in un’insolita sfida con l’Ornellaia dello stesso millesimo 1998 che ho raccontato qui), non posso certo non riconoscere sia una boccia che valga la pena assaggiare almeno una volta nella propria vita. Vino dal colore rosso intenso con tratti di una certa lucentezza, tutto fuorché “cotto”. Anzi, perfettamente integro: sia nell’aspetto, appunto, che nelle sensazioni olfattive e gustative.
In pratica, l’eccezione – nemmeno tanto emblematica, a dirla tutta – che conferma la regola: e, cioè, che nelle annate “sfortunate”, chi ha
seminato bene in vigna ha potuto
raccogliere un prodotto di livello, magari in minore quantità e con più sacrificio. Prova ne sono i profumi di bella complessità che ricordano l’amarena, l’anice, la grafite e il sottobosco, finanche qualche tocco di mineralità che ritorna anche al palato, regalando un sorso intenso e definito, rotondo ma non piatto grazie a una buona freschezza di fondo che gli permette di conservare verve e agilità. Tannino setoso, ben levigato; con un finale, magari non particolarmente lunghissimo, in cui si intrecciano la china e il terriccio, via via più intensi man mano che scompare la frutta rossa.
Dedicato a chi snobba i vini del 2003 solo perché hanno quella targa. Con un grazie grosso così, dopo che l’ho bevuta a Natale, perché è stato soprattutto grazie a loro che l’ho comprata nel 2005, in un’enoteca on line di tutto rispetto, per “soli” 85 eurini. Un affare, no!?