C’eravamo lasciati così, con Jonathan Nossiter – sì, proprio lui, il celebre regista di Mondovino – che nell’articolo recentemente pubblicato su GQ parlava di “vino tossico”. Poi, questa mail di un lettore de Il Gastronauta e la risposta di Davide Paolini che preannunciava per oggi una puntata speciale: “vino industriale” vs “vino naturale“.
Il resto è storia odierna. Ecco gli interventi della puntata.
Antonello Maietta (Presidente AIS – Associazione Italiana Sommeliers): intanto occorre trovarsi d’accordo sul significato di “vino naturale” perché il vino non lo è di per sé, essendo – semmai – l’aceto il prodotto “naturale” dell’uva. Pare condivisibile che ci sia oggi una presa di coscienza da parte del produttore, di un profilo “etico” nella produzione del vino. Allo stesso modo, è chiaro che all’AIS interessi prima di tutto la qualità; che poi il vino buono sia anche “etico”, tanto meglio. Sembra poi che l’espressione “vino industriale” sia utilizzata in modo per lo più dispregiativo, come se finora avessimo bevuto sempre vini “cattivi” e non genuini. Quando assaggio, mi capita a volte che l’essere “naturale” diventi il primo e unico argomento di discussione di chi non ne ha altri. Vorrei sentirmelo dire alla fine, ecco.
Marco (radioascoltatore da Sondrio): bisogna tendere verso un concetto di “naturale”, in tutti gli ambiti. Bisogna essere attenti verso il vigneto, usare meno elementi esterni possibili per arrivare a qualità e identità.
Giovanni (radioascoltatore dalla provincia di Vicenza): vini “naturali” o non, l’importante è che il vino sia buono.
Partendo da questo intervento di Giampaolo Paglia, Elena Pantaleoni (Azienda Vinicola “La Stoppa”): d’accordo con Giampaolo, il “vino industriale” segue le regole del mercato. L’approccio “naturale”, invece, cerca di esaltare al massimo la provenienza, la vendemmia e – infine – il vitigno: non si interviene per cambiare il prodotto con il proprio gusto o per assecondare il mercato. Quando conosci bene la tua azienda, le tue vigne e le potenzialità della tua zona, cerchi di esaltarle. Non c’entrano molto i numeri: uno, anche se fa tante bottiglie, può avere un approccio in un certo senso “naturale”.
Antonio Santarelli (Azienda Agricola “Casale del Giglio”): non so se abbia molto senso appiccicare etichette, quasi come se chi fa “vino industriale” rulli tutto e impedisca l’emergere di valori quali territorialità e regionalità. Gli standard sanitari sono garantiti da tutti, oggi. Nossiter ha fatto una valutazione poco ampia, non considerando la sostenibilità economica e qualitativa oltre che quella ambientale. A volte malattie e attacchi fungini non possono essere contrastati con certi metodi di agricoltura, c’è il rischio di danneggiare la qualità del prodotto. E poi c’è il contadino che deve pur sempre vivere. Se si riuscisse – in modo costruttivo – a creare un gruppo di lavoro per dare un’informazione legata alla realtà, credo che l’evoluzione futura sia in quella direzione (del biologico, n.d.r.).
Riccardo (radioascoltatore dalla provincia di Pordenone): c’è un numero per dichiarare una cantina “industriale”? In Australia, molte cantine che seguono un metodo di viticoltura “biodinamica” producono milioni di bottiglie. Che forse “naturale” voglia dire semplicemente che si possa riconoscere il territorio?
Ancora, Elena Pantaleoni: la viticoltura biologica o biodinamica è una responsabilità di tutti. Capisco che sulle parole si possa discutere, io non ritengo negativa la parola “industriale” anche se ammetto che abbia assunto questa connotazione negativa. Guardando al Barolo (un tempo conosciuto come un vino di pregio che può durare a lungo, con maturazione in botte grande; poi un po’ snaturato dai “modernisti”, salvo constatare un progressivo ritorno attuale al Barolo di un tempo), non v’è dubbio che si sia abusato della tecnica: il fatto di essere “naturali” o meno, di usare più o meno solforosa o lieviti selezionati è sicuramente meno interessante del risultato. Nessuno vuole fare divisioni tra “buoni” e “cattivi”: è importante, però, che il consumatore abbia gli strumenti giusti per poterli distinguere.
Maurizio Gily (Direttore rivista Millevigne): il termine “naturale” che tanto si usa oggi non ha una definizione univoca. A voler fare il “guastatore”, il vino non è un prodotto che esiste in natura ma è prodotto dal uomo. Oramai, però, c’è accettazione comune sul fatto che il “vino naturale” sia quello ottenuto da un vigneto condotto secondo i canoni dell’agricoltura biologica, con una filosofia meno interventista. Se manca una definizione condivisa è forse anche per via di una sorta di idiosincrasia dei piccoli produttori, in particolare, verso la burocrazia: definire un protocollo di “vino naturale” presuppone una certificazione esterna che quel protocollo è stato rispettato e c’è paura – forse – di entrare in questo meccanismo.
Patrizia (radioascoltatrice da Cremona): in enoteca mi confronto con le richieste dei consumatori e mi accorgo che c’è grande confusione sul concetto di “vino naturale”, “convenzionale”, con o senza solfiti. Le persone hanno ricevuto un messaggio che li porta oggi a cercare sempre più vini sani e controllati; ma l’equilibrio auspicabile del “buono, corretto e sano” non è ancora chiaro, c’è timore di assumere vini “cattivi” e “tossici”: di qui tutta una serie di discussioni sul vino che contiene solfiti che diventa tutt’un tratto “dannoso”. C’è una grande aspettativa ma anche una grande confusione, in parte alimentata da un certo modo di comunicare, un po’ forzato in una sola direzione. Personalmente, in tanti anni che faccio questo lavoro, non ho mai conosciuto una persona che abbia a cuore la sua terra e il suo vino che abbia usato il “veleno” in vigna o in cantina. L’equazione “vino naturale” = “vino buono”, come pure quella “vino industriale” = “vino cattivo”, mi sembra veramente fuori luogo.
Lamberto Vallarino Gancia (Presidente Federazione Industriali del Vino): non esiste una norma che definisce i “vini naturali” mentre c’è una legge che chiarisce cos’è il “vino” (e più di 600 diversi disciplinari di produzione). S’è creato tutto un mondo di “vini naturali” ma non c’è nemmeno una norma europea condivisa: si parla solo di vino fatto con “uve da coltivazione biologica”. Sono d’accordo anch’io: c’è confusione nella comunicazione del messaggio, bisogna stare più attenti. Il vino – di fatto – deriva dall’uva: alcuni cercano di usare meno chimica possibile, altri stanno cercando di usare meno solforosa (con risultati abbastanza scarsi, per la verità, perché i vini senza solforosa si ossidano e risultano imbevibili). A livello europeo, stiamo studiando una definizione di “vino biologico”: c’è il rischio che questa possa essere bandita se non entro giugno non si arriva a una soluzione condivisa.
Angiolino Maule (titolare Azienda Agricola “La Biancara” e Presidente Vinnatur, associazione viticoltori naturali): Io non sono un uomo di cultura ma sono un uomo di campagna: dobbiamo fare vini da territorio e non vini “da chimica” o troppo “da uomo”. E vero che il vino è anche un prodotto dell’uomo ma nel gusto del vino deve dominare il gusto del territorio. Grazie alla ricerca che stiamo portando avanti con microbiologi stiamo producendo vini senza chimica, vini corretti e anche bevibili: vini da territorio senza la chimica.
Donato Lanati (Enologo e docente di Tecnologia Enologica al corso di laurea di secondo livello della facoltà di Agraria di Torino): io farei piuttosto una distinzione tra vino “artigianale” (meno interventismo) e vino “industriale” (razionalizzazione di un processo produttivo). Se ci sono Chateau che producono una sola varietà e 500 mila bottiglie buone e – invece – aziende artigianali che fanno volumi più ridotti ma vini meno convincenti, vuol dire che non è solo un problema di quantità. Certo, quando le quantità aumentano si perde in un certo senso il concetto di territorialità, che è il vero valore aggiunto delle piccole aziende. Fondamentale è poi il ruolo della ricerca, che ha permesso di studiare certi processi. Vi è il pericolo che per avere grandi quantità si possa fare violenza alla natura, in vigna e in cantina. Vero è anche che tendenzialmente il vino prodotto in grande quantità è più controllato, l’azienda che lo produce non può permettersi di mandare in giro bottiglie non a posto, il produttore deve garantire la massima genuinità. Il successo imprenditoriale sta nel marchio, la capacità di fidelizzare a prescindere da grandi o ridotte quantità.
Ancora Angiolino Maule, stuzzicato da Davide Paolini sulla (reale, a quanto pare) possibilità che il termine “vino biologico” possa essere bandito a livello europeo se non si trovasse una definizione condivisa entro il prossimo giugno: sarebbe una vergogna. Dovrebbero incentivare i produttori che tolgono la chimica dalla vigna, e invece…
[foto tratta dal sito www.gastronauta.it]