Nessuna intolleranza agli stranierismi, anzi. Prova ne sia il debole che ho per la musicalità del termine francese vigneron. Soltanto semplice antipatia per l’idea di “costruito” che mi pare vi affiori in genere (ma non è questo il caso), finendo forse con lo stonare con quell’immagine così naturale e passionale della mano, più sotto ancora in etichetta, che stringe con forza il grappolo.
Roba di poco conto, sia chiaro: anche perchè il pensiero mi ha solo sfiorato e ha lasciato spazio a ben altre preoccupazioni, del tipo ma forse dovevo aspettare ancora prima di tirargli il collo oppure caspita, era l’ultima bottiglia che avevo.
Difficile non innamorarsi di un vino così.
Per i profumi, eleganti e complessi, caratterizzati dalle ben evidenti note fumè del terroir più in altura della denominazione (circa 600 metri d’altitudine) e da quelle più suadenti di frutta e nocciola.
Per il gusto, ancor più: teso, tagliente, sapido, che ti prende con quell’affumicatura sempre in bilico tra il primo e il secondo piano. Per quel sorso che si concede con estrema naturalezza, generoso e senza fronzoli, che rimane in bocca a lungo. Per quel finale, così vero.
Questo è quanto.
Regalo di Alessandro Russo al termine di una giornata trascorsa insieme in giro per vigne in costiera, conclusasi con l’ottima pizza e lo spettacolare assaggio di provolone del monaco al suo ristorante Le Tre Arcate di Piano di Sorrento.
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