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Andrea Matrone, il vignaiolo che ama il blues e (non solo)

Un ritratto a parole di Andrea Matrone non è mica semplice, ma inizierei parlando della sua forte coscienza ambientale e di un’interpretazione moderna – si può dire? – del lavoro di viticoltore, che lo vede impegnato come vera e propria sentinella del territorio. Continuerei dicendo che questo ragazzone – credo abbia più o meno la mia età – vive di altre fragorose passioni: su tutte, quelle per l’arte figurativa e per la musica (sui social lo avrete visto più di una volta imbracciare la chitarra, no!?).

Quel suo essere caparbio, poi, spiega bene anche una decisione non facile: tornare a Boscotrecase (versante sud del Vesuvio), dopo una laurea in enologia a Firenze e varie esperienze lavorative in giro tra vecchio e nuovo mondo, per occuparsi delle vigne nel “territorio de’ Matroni”.

Andrea Matrone, Cantine Matrone

Dei 4 ettari e mezzo coltivati al momento, l’appezzamento forse più suggestivo è quello ribattezzato “vigna Montagna“. Andrea, che si sta adoperando per preservare dall’incuria il bosco circostante, ha piantato viti di piedirosso ad alberello (è forte l’ammirazione per la viticoltura etnea), una cosa affatto usuale e sicuramente tanto complicata da far schizzare i costi, anche sotto il profilo dell’impegno fisico. Il sogno ora è di ridare vita alla casetta che fu rifugio per la sua famiglia in tempo di guerra, dalla cui terrazza c’è un colpo d’occhio fantastico. La vista non è male nemmeno a “vigna Panoramica“, per la verità: il vento soffia costantemente e le escursioni termiche sono più accentuate, niente di meglio per le varietà a bacca bianca che sono lì allevate. Nella “vigna Bosco del Monaco“, infine, proprio al di sotto dell’ospedale di Boscotrecase, convivono uve bianche e rosse, comprese quelle di cui vi parlerò tra poco.

La scelta è stata di concentrarsi sin da subito esclusivamente sul Lacryma Christi, producendo un bianco e un rosso rispettivamente da caprettone e piedirosso con un saldo di altre uve minori locali. Tra queste, alcune varietà pressoché dimenticate che vanno a comporre l’uvaggio variabile dello Scasso, un rosso leggero e spensierato, molto più che un giochino. Cancello, colonna e fosso, e poi la cascaveglia, di cui ho apprezzato la sperimentale vinificazione in damigiana, un esperimento utile, se non altro, per conoscere e conoscersi, per immaginare magari cosa sarà poi.

Work in progress

Il credo enoico di Andrea, da qualche tempo pure animatore appassionato della delegazione regionale Fivi, è semplice, chissà forse proprio per questo rivoluzionario: fermentazioni (ora) spontanee, nessuna chiarifica, un anno di attesa prima della commercializzazione. L’obiettivo è tirare fuori il carattere da questi grappoli che maturano al sole, davanti al mare, su suoli vulcanici ricchi di potassio.

L’annata 2018 in bottiglia è per certi versi “transitoria”, e le scelte fatte hanno preso forma nei vini targati 2019 (che ho assaggiato da vasca e, per la cronaca, mi hanno impressionato). L’obiettivo è di anticipare leggermente la raccolta e affidarsi a macerazioni meno prolungate per ottenere vini “nudi”, ma che non smarriscano pienezza al sorso e possano rappresentare il territorio non solo a parole. I primi esiti non sembrano male, specie in fatto di prontezza gustativa e vocazione alla leggerezza, che è poi un tratto distintivo dei vini vesuviani.

Staremo a vedere.

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