L’idea di una serata con Donnafugata firmata Banca del Vino è stata il risultato di tutta una serie di suggestioni.
Più di tutto, piaceva l’idea di portare al Museo dell’Arte, del Vino e della Vite di Portici, e cioè all’ombra del Vesuvio, i vini di altri territori vulcanici quali sono, appunto, quelli dell’Etna (il vulcano attivo più alto d’Europa) e dell’isola di Pantelleria. Insomma, la Sicilia a Napoli, che è anche la città da cui era iniziata la fuga della regina Maria Carolina d’Austria, la “donnafugata” de Il Gattopardo (ecco spiegata la genesi del nome dell’azienda guidata da Josè e Antonio Rallo).
C’era inoltre la voglia, dopo 3 bellissimi appuntamenti made in Langa – nell’ordine: Poderi Colla, Ettore Germano e Giuseppe Cortese –, di approdare in un’altra terra fantastica del vino (e non solo, ingrassate anche voi al solo pensiero?).
Etna e Pantelleria, si diceva. Al di là dell’animo vulcanico dei rispettivi suoli, ‘a muntagna e l’isola pantesca hanno in comune il sistema di allevamento della vite. Lo stesso vigneto di contrada Marchesa* a Castiglione di Sicilia, per dire, è in gran parte popolato di viti ad alberello**; e così pure i terrazzamenti costruiti con muretti a secco di pietra lavica a Pantelleria.
I vini dell’Etna
Veniamo dunque ai vini presentati da Chiara Messina, responsabile Marketing e Wine Tourism, a cominciare dai due Etna, territorio in cui i Rallo hanno investito soltanto di recente (2016). Preferenza per il bianco Sul Vulcano 2019 che il rosso Contrada Marchesa 2018 (seconda annata prodotta), almeno a mio gusto: il passaggio in legno di una parte contribuisce a creare un buon equilibrio tra ricchezza del frutto e vigore espressivo-minerale del carricante, senza pregiudicare la freschezza del sorso, placido sì, ma non molle.
Il Ben Ryé declinato in 5 annate
Inutile dirvi che l’attesa era tutta per la verticale del Passito di Pantelleria Ben Ryé, che io stesso mai avevo assaggiato in millesimi più “datati”. Detto che – ovvietà – senza sale e freschezza mancherebbe ogni spinta a vuotare il calice, nel caso specifico il pericolo di cedere alla stucchevolezza può dirsi scampato anche con le calde e scarsamente piovose annate 2017 e 2016. Merito pure, evidentemente, della vinificazione a due tempi che prevede: 1) la raccolta anticipata in agosto di uve zibibbo (moscato di Alessandria) particolarmente ricche in acidità, lasciate appassire sui graticci, al sole e al vento; 2) la sgranellatura a mano dei chicchi passiti – non so se avete presente lo sforzo –, che vengono poi aggiunti al mosto ottenuto con le uve della seconda raccolta. Solo acciaio, eh.
Segnalo, per la cronaca, che nessuno in sala ha azzeccato il residuo zuccherino: potreste facilmente spaventarvi, ma siamo ben al di sopra dei 150 g/l ipotizzati da qualcuno 😉 Pronostico complicato anche per il volume alcolico, mai superiore ai 14,5% dichiarati in etichetta, nemmeno nelle annate più “accaldate” della batteria (2017 e 2016).
L’alzata di mano sancisce il largo gradimento per due millesimi che sembrano poter avere analoga parabola evolutiva: 2018 e 2010 (quest’ultimo ancora integro e vitale). Bonus per il 2009, più crepuscolare e decadente del solare 2010, pronto a misurarsi con gli abbinamenti gastronomici più arditi. Una fetta di pandoro bruciacchiata e ben spalmata di foie gras, per esempio: ecco la curiosa proposta di un ristoratore lucano che mi ha fatto venire fame! E ti pareva… 😉
* l’impegno della famiglia Rallo è ora quello di riconvertire la restante parte a spalliera entro i prossimi 2/3 anni.
** da cui arrivano i grappoli per l’omonimo cru, l’Etna Rosso Contrada Marchesa.