“Sinteticamente i Presidi (in Italia sono 177) sono il risultato di un lavoro di dieci anni che ha affermato con forza valori fondamentali: la tutela della biodiversità, dei saperi produttivi tradizionali e dei territori, che oggi si uniscono all’impegno a stimolare nei produttori l’adozione di pratiche produttive sostenibili, pulite, e a sviluppare anche un approccio etico (giusto) al mercato. Concretamente i Presidi hanno contribuito a salvare numerose razze animali, specie vegetali, formaggi, pani e salumi che rischiavano l’estinzione e sostenuto centinaia di produttori affinché potessero proseguire la propria attività, favorendo il contatto tra consumatori interessati alla qualità e disponibili a pagare un prezzo equo e remunerativo.
Nel 2008, a dieci anni dall’avvio del progetto, Slow Food Italia ha accolto una richiesta dei produttori: la creazione e l’assegnazione di un “contrassegno” di identificazione, tutela, valorizzazione da apporre sulle confezioni dei prodotti, che consenta ai consumatori di identificare i prodotti presidiati, tutelandosi dai falsi sempre più numerosi sul mercato.
Nel 2009, Slow Food ha proposto un progetto di Alleanza tra Cuochi e Presidi, affidando alle Condotte Slow di territorio, la selezione di chef motivati ad introdurre nei loro menù i prodotti dei Presidi, sia per le loro qualità organolettiche sia per il loro valore culturale, nel rispetto della filosofia di stagionalità delle produzioni e di rapporto diretto con i produttori.
In questo modo gli chef e i loro ristoranti aderenti, diventano divulgatori del messaggio di Slow Food legato alla biodiversità alimentare.
Il progetto culminerà con Le Cene dell’Alleanza, organizzate il 15 ottobre in ciascuno dei ristoranti aderenti.
Il nostro Ristorante Le Tre Arcate, nella mia persona e dello chef Salvatore Accietto, ha aderito con entusiasmo all’iniziativa ed il prossimo 15 ottobre, alle ore 20.30, proporrà una Cena dei Presidi basata sull’alleanza tra i presidi campani e piemontesi.
Questo il menù proposto:
• benvenuto di crostini con Presidi al naturale;
• dadolata di Testa di cassetta di Gavi con crema di fagioli cannellini;
• zuppetta di cavoli con alici di Menaica;
• paccheri di Gragnano con pomodorini del Piennolo vesuviano e colatura di Alici di Cetara;
• risotto zucca e montébore;
• flan alle Nocciole del Piemonte IGP.
In abbinamento i vini dell’azienda TerredaVino di Barolo.
Costo della serata € 35 per persona.
Questi i cinque presidi scelti (tra parentesi i produttori) con una loro breve descrizione:
Pomodorini del Piennolo Vesuviano (Az. Biologica Casa Barone – Somma Vesuviana).
Una delle produzioni più caratteristiche dell’area del Vesuvio sono i pomodorini da serbo “col pizzo”, detti anche spongilli o piénnoli (“pendoli”) per l’abitudine di appenderli alle pareti o ai soffitti, riuniti in grappoli (schiocche) e legati con cordicelle di canapa. Sono piccoli pomodori (20-25 grammi) dalla forma a ciliegia, che si distinguono dagli ormai famosi pomodorini di Pachino per la presenza di due solchi laterali (detti coste) che partono dal picciolo e danno origine a delle squadrature, e di una punta, un “pizzo”, all’estremità. La buccia è spessa e resistente, la polpa soda e compatta, povera di succo, prosciugata dal sole che splende sui terreni aridi del vulcano. Si seminano in marzo-aprile e maturano tra luglio e agosto, ma l’antico procedimento di conservazione prevede che li si raccolga a grappoli interi all’inizio dell’estate per conservarli, appesi in locali con adeguata temperatura e umidità, fino all’inverno o addirittura alla primavera successiva. Così, per molti mesi, si possono condire i piatti di pesce, le pizze e le paste della tradizione campana con una “pummarola” straordinariamente saporita. Le bacche rosse hanno buccia spessa, polpa soda e compatta e un sapore dolce-acidulo. Sapore e profumo diventano più intensi con il passare del tempo: man mano che i pomodori asciugano e la concentrazione aumenta. Da sempre hanno costituito il veloce spuntino di mezza mattina dei contadini nei campi: un pomodoro “schiattato” sul pane, un filo d’olio, sale e basilico. In cucina si utilizzano per le cotture veloci: ad esempio per i vermicelli alle vongole o il pesce all’acquapazza. Eccellenti anche con la carne alla pizzaiola: fettine cotte in un semplice sughetto di pomodorini preparato all’istante, che poi, una volta estratta la carne, serve per condire i maccheroni.
Area di produzione: Comuni vesuviani (provincia di Napoli).
Stagionalità: la raccolta del pomodorino raggiunge il suo massimo nei mesi di luglio e agosto ma il pomodorino può essere conservato in grappoli oppure consumato in conserva successivamente.
Colatura di Alici di Cetara (Iasa Srl – Cetara):
Pochi trasformati vantano una così nobile ascendenza quale la colatura di alici: bisogna risalire infatti ai banchetti imperiali narrati da Plinio, dove il garum era protagonista indiscusso delle portate pantagrueliche di Apicio. Questo liquido ambrato, molto simile al garum romano, si ottiene dal processo di maturazione delle alici sotto sale, seguendo un antico procedimento tramandato di padre in figlio dai pescatori di Cetara e tuttora praticato in molte famiglie del borgo costiero. Le acciughe, appena pescate, sono decapitate ed eviscerate (“scapezzate”) a mano, e poi sistemate, con la classica tecnica “testa-coda” a strati alterni di sale ed alici, in un apposito contenitore in legno di rovere, il terzigno (un terzo di una botte). Completati gli strati, il contenitore viene coperto con un disco in legno (detto tompagno), sul quale si collocano dei pesi (di solito pietre marine). Per effetto della pressatura e della maturazione delle acciughe, un liquido comincia ad affiorare in superficie: mentre nel normale processo di conservazione delle alici viene prelevato ed eliminato, nella produzione della colatura ne costituisce l’elemento base. Raccolto progressivamente, viene conservato e sottoposto a un procedimento naturale di conservazione con esposizione alla luce diretta del sole estivo. Al termine del processo di maturazione delle alici (circa 4-5 mesi), in genere fra la fine del mese di ottobre e gli inizi di novembre, tutto è pronto per l’ultima fase: il liquido raccolto e conservato viene versato nuovamente nel terzigno ove le acciughe erano rimaste in maturazione. Attraversando lentamente i vari strati (di qui il termine colatura), ne raccoglie il meglio delle caratteristiche organolettiche, fino a essere recuperato, attraverso un apposito foro praticato nella botticella con un attrezzo detto vriale e trasferito in altro recipiente. Il risultato finale è un distillato limpido dal forte colore ambrato (quasi bruno-mogano) e dal sapore deciso e corposo: un’eccezionale riserva di sapidità che conserva intatto l’aroma della materia prima.La colatura di alici è un condimento peculiare che può essere anche usato al posto del sale per insaporire le verdure fresche o lessate (patate, scarole, broccoli ecc.) e alcuni piatti di pesce.
Area di produzione: Comune di Cetara (provincia di Salerno).
Stagionalità: Le alici vengono pescate da aprile fino ad agosto, la maturazione del liquido nei terzigni dura 4-5 mesi.
Alici di Menaica (Donatella Marino – Marina di Pisciotta).
C’è un’antichissima tecnica di pesca, un tempo diffusa su tutte le coste del Mediterraneo, che sopravvive in pochi luoghi, in Italia. Uno di questi è il Cilento, in particolare a Marina di Pisciotta, un piccolo borgo sulla costa, a metà strada tra Velia e Capo Palinuro. Sopravvive grazie a un gruppo di pescatori – non più di sette, otto barche – che escono in mare la notte con barca e rete (entrambe si chiamano menaica o menaide, anticamente minaica).
Le “alici di menaica” si pescano nelle giornate di mare calmo, tra aprile e luglio: si esce all’imbrunire e si stende la rete sbarrando il loro percorso al largo. La rete le seleziona in base alla dimensione, catturando le più grandi e lasciando passare le piccoline. Nervose e guizzanti, le alici, una volta intrappolate, perdono velocemente gran parte del loro sangue. Con la forza delle braccia si tira in barca la rete e, delicatamente, si estraggono dalle maglie, una a una, staccando la testa ed eliminando le interiora. Poi si sistemano in cassette di legno e – fatto molto importante – non si utilizzano né il ghiaccio né altri tipi di refrigerante per il trasporto. Le alici vanno lavorate immediatamente: prima si lavano in salamoia e poi si dispongono in vasetti di terracotta, alternate a strati di sale. Quindi inizia la stagionatura, che avviene nei cosiddetti magazzeni, locali freschi e umidi dove un tempo, prima che nascesse il porto, si ricoveravano anche le barche. Qui le alici devono maturare, ma senza asciugare troppo, almeno tre mesi. Le alici di menaica sotto sale si distinguono per la carne chiara che tende al rosa e per il profumo intenso e delicato, che le rende assolutamente uniche. Si mangiano fresche o sotto sale, crude o cotte. Molte ricette sono semplicissime, come l’insalata di alici crude, appena sbiancate dal limone e condite con olio, aglio e prezzemolo, o il sugo di alici, ottimo sugli spaghetti e velocissimo: basta friggere le alici con un po’ di olio, pomodorini, aglio e peperoncino. Più complesse, ma sempre basate su pochi ingredienti: le inchiappate (alici aperte, farcite con formaggio caprino, uova, aglio e prezzemolo, infarinate, fritte e cotte nella salsa di pomodoro), le ammollicate (alici spaccate, condite con mollica di pane, aglio, olio e prezzemolo), il cauraro è a base di patate, fave, alici e finocchietto selvatico.
Area di produzione: Comuni di Pisciotta e Pollica (provincia di Salerno).
Stagionalità: Le alici sono pescate nel periodo primaverile-estivo, dal mese di marzo fino ad agosto.
Testa in cassetta di Gavi (Salumi Agostino Bertelli – Gavi).
Ricetta antica ed elaborata, la testa in cassetta è un tipico salume «di risulta»: lo stratagemma studiato dai contadini per conservare e rendere appetitose le parti del maiale che avanzavano dalla produzione di prosciutti, coppe e salami. La versione elaborata dai macellai di Gavi si differenzia dall’originale contadino per l’uso di tagli bovini nobili e meno nobili che ingentiliscono la ricetta. Viene prodotta, esclusivamente nei mesi invernali, utilizzando accanto alla testa del maiale, la lingua, il muscolo e il cuore bovino, considerato indispensabile per ravvivare il colore della fetta. I vari tagli devono sottostare a una lunga cottura in acqua salata, prima di essere disossati e ridotti in pezzi piccoli con battitura a coltello. La testina, o maschietta, bollita insieme agli altri tagli, è passata più volte con la mezzaluna fino a diventare semiliquida, anche grazie all’aggiunta di acqua di cottura. A questo «passato» è aggiunta la carne a dadini e una concia a base di sale, pepe, cannella, coriandolo, chiodi di garofano, noce moscata, peperoncino, pinoli e un tocco di rhum. L’impasto, ancora ben caldo, si insacca delicatamente quindi nel budello cieco di manzo, detto anche tascone. La testa, così preparata, è posta poi per un giorno in ambiente molto freddo; alcuni la lasciano per una notte all’aria aperta gravata da un peso per compattarla e darle la caratteristica forma schiacciata. A questo punto la testa in cassetta è pronta. L’utilizzo di vari tagli bovini rende la testa in cassetta di Gavi particolarmente delicata e magra e determina la caratteristica policromia della fetta. Al naso i tenui sentori carnei sono arricchiti dalla speziatura. Si può consumare sia come antipasto, fredda e tagliata molto sottile, sia come secondo, tagliata spessa, leggermente riscaldata, su un letto di cipolle al forno.
Area di produzione: Comune di Gavi (provincia di Alessandria).
Stagionalità: viene prodotto tutto l’anno eccetto nei mesi estivi di giugno, luglio, agosto.
Montébore (Agriturismo Vallenostra di Mongiardino Ligure).
Montébore è un paesino della Val Curone, sullo spartiacque tra le valli del Grue e del Borbera. Un angolo del Tortonese (nel territorio piemontese che confina a sud con la Liguria e a est con la Lombardia) poco umanizzato e integro. La fama del luogo è legata a una formaggetta di latte vaccino e ovino dalla storia antichissima. Già nel XII secolo un ricco tortonese ne mandava ben cinquanta pezzi in dono a un alto prelato per perorare la promozione del fratello prete. E alla fine del Quattrocento è l’unico formaggio presente nel menù delle sfarzose nozze tra Isabella di Aragona, figlia di Alfonso, e Gian Galeazzo Sforza, figlio del Duca di Milano. La curiosa forma a torta nuziale si ispira alla antica torre del paese ed è data dalla sovrapposizione di robiole dal diametro decrescente. La crosta parte liscia e umida e poi, con la stagionatura, diventa più asciutta e rugosa. Il colore va dal bianco al giallo paglierino. La pasta è liscia o leggermente occhiata, di colore bianco in varie sfumature. Si fa con latte crudo: per il 75% vaccino (un tempo era quello delle vacche Tortonesi, oggi quasi estinte) e per il restante 25% ovino. La cagliata, rotta con un cucchiaio di legno, è posta nelle formelle, rivoltata e salata. Estratte dallo stampo, tre forme dal diametro decrescente sono poste a stagionare, una sopra l’altra, da una settimana a due mesi. L’assaggio di Montébore, opportunamente stagionato, denuncia il gusto del latte ovino, anche se la percentuale di latte di pecora non supera mai il 40%. Al naso, infatti, si percepiscono odori leggermente animali e un poco speziati. In bocca, all’inizio della degustazione, è tendenzialmente latteo e burroso, mentre nel finale si sente la castagna accompagnata da sfumature erbacee. Il Montébore può essere gustato fresco, semistagionato (quindici giorni) o da grattugia.
Area di produzione: alcuni comuni delle Valli Curone e Borbera (provincia di Alessandria).
Stagionalità: la produzione del formaggio Montebore avviene tutto l’anno.