M’ha fatto un certo effetto vedere quelle bottiglie marroni con le etichette ingiallite, segnate dal tempo, e (poter solo) immaginare l’Irpinia degli anni che furono, di quando non c’erano strade – per dire – e le uve venivano trasportate in cantina con le carrette.
Così pure, pensare alla centralità della figura di Antonio Mastroberardino, uno quasi troppo avanti che già allora, quando in molti spingevano per una conversione degli impianti a trebbiano e sangiovese, andava predicando un concetto assai di moda oggi (vi dice niente territorialità!?)
La prima zonazione del Taurasi risale al 1968: complice un’annata abbondante e particolarmente favorevole, i Mastroberardino vinificarono separatamente – oltre alla riserva – i 3 cru di Piano d’Angelo, Castelfranci e Montemarano; bottiglie che furono poi messe in commercio con tanto di bollino, collarino e –udite udite– etichetta di ricambio (faccina sorridente), di fatto anticipando le grandi potenzialità di invecchiamento dell’aglianico taurasino.
Oooohhh! L’aglianico di Taurasi è grande grande solo così, col tempo. E la verticale del 5 marzo scorso*/** (momento apicale della bella manifestazione dedicata alle eccellenze enogastroniche d’Irpinia) non ha fatto altro che ribadire – se mai ve ne fosse stato bisogno – il concetto, evidentemente già molto ai chiaro ai Mastroberardino che custodiscono ancora oggi bottiglie degli anni Venti e Trenta.
Il 1968 apre su sfumature anche piuttosto colorate di cioccolato e frutta sotto spirito, cànfora e liquirizia, dattero (sul finale). Il colore più cupo – comunque vivo – rappresenta un elemento di discontinuità rispetto alle altre due annate in degustazione. «Un’annata calda e piuttosto asciutta, decisamente copiosa», ricorda Piero Mastroberardino; «l’annata di riferimento», secondo Luciano Pignataro. Da’ il meglio soprattutto in bocca (dove è grande, anzi grandissimo), a dispetto di un naso pur affascinante e di bella complessità, di chiara «impronta mediterranea» (Pignataro dixit) e tutto sommato un po’ compresso. Il tannino è setoso, la beva è sostenuta da una freschezza inimmaginabile, il finale è lunghissimo sulle note di liquirizia e – azzarderei – cenere. Palpitante.
Mi ha detto bene (cit), ché il 1969 che ho bevuto io arrivava probabilmente dalla bottiglia più in forma tra quelle aperte. Bicchiere di grande eleganza, il mio. Finanche più pienotto del precedente millesimo, per certi versi. Abbandonate le tonalità del 1968, il colore vira su un rubino/granato maturo ma senz’altro più brioso, nonostante qualche residuo in più nel bicchiere rispetto – per dire – al 1970. Frutto vivo e pimpante, assolutamente integro, a caratterizzare una beva assai soddisfacente ma che non ha, comunque, la stessa grandeur del 1968. Manca, poi, rispetto a quel millesimo, l’emblematica dicotomia naso/bocca, leggi «doppia personalità dell’aglianico». «L’annata – ricorda Piero Mastroberardino – è stata sofferta, con un andamento eterogeneo ed una notevole piovosità nei momenti topici». C’è una curiosa nota di tamarindo. In mezzo a due colossi ha fatto quel che ha potuto. Non sfigurando.
Il 1970 è la finezza fatta vino. Dei 3 Taurasi in degustazione è stato (forse) anche quello più cangiante: una graffiata di china (in apertura), la nota mentolata sempre sullo sfondo, la terra, un che di metallico e rugginoso o forse ematico, i funghi e il sottobosco, il tabacco da pipa. Anche quello più affilato, verticale, salvo poi sparire nel bicchiere sul finale. Puntuale la freschezza a sorreggere una beva tutto sommato più snella; l’astringenza da tannino è appena più evidente ma sempre composta. Chiude molto lungo sulla frutta rossa e sulla stessa nota metallica avvertita precedentemente al naso. Per essere stata «un’annata più fredda con abbondanti nevicate», il risultato è spaventosamente interessante.
Il mio preferito? Proprio lui, il 1970.
* Ah, tutte bottiglie che provenivano dalla collezione privata di Alessandro Bembo, titolare dell’hotel De La Ville che ha ospitato la manifestazione.
** Leggere, prego, quest’altro post di Sara Marte.